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Qui si mettono in fila alcune osservazioni sul modo in cui l’Italia ha costruito la propria narrazione pubblica, e su come quella narrazione
continui a operare anche quando le condizioni che l’hanno prodotta sono cambiate.
La frattura aperta con l’8 settembre 1943, che per due anni divide il paese in territori, alleanze e destini differenti, si ricompone solo in apparenza sotto una nuova legittimità istituzionale.
Col tempo, però, le esperienze vissute emergono nei fatti come incompatibili, e nessuno riuscirà o cercherà davvero di ricucirle.
Tra il 1945 e il 1947, nel giro di due anni, l’Italia firma un trattato di pace che ne sancisce la sconfitta, abolisce la monarchia con un referendum incerto e
formalizza un nuovo assetto costituzionale.
Quel referendum non è solo una scelta: è la cartina di tornasole di un paese già diviso — nord repubblicano, sud monarchico — e in definitiva la conferma che l’unità ritrovata è più giuridica che reale.
E poiché tutto cambia molto in fretta, il modo di pensarsi come comunità politica non ha il tempo di maturare.
Le scelte compiute in quella fase non sono state solo politiche o costituzionali: hanno avuto anche un carattere simbolico, educativo,
linguistico.
Alcuni concetti sono stati caricati di una funzione identitaria e protettiva, e hanno finito per operare come criteri impliciti di validità culturale.
Nel tempo, questi concetti si sono stabilizzati: hanno definito cosa fosse accettabile dire, pensare, proporre.
Hanno agito non tanto attraverso il potere formale, quanto attraverso l'abitudine. Il risultato è stato un sistema di riferimenti condivisi,
ma non sempre interrogati.
E in quel sistema, alcune parole hanno acquisito una forza che le ha sottratte al giudizio critico.
Il racconto della liberazione, il ruolo della Repubblica, il significato attribuito al progetto europeo, la fiducia accordata alle istituzioni sovranazionali:
tutti questi elementi hanno svolto anche una funzione di contenimento.
Contenere il ritorno del passato, ma anche contenere ogni ipotesi che potesse sembrare in discontinuità con quel racconto.
Questo meccanismo ha spesso anticipato e sterilizzato il dissenso, spostandolo fuori dal perimetro del confronto legittimo.
Ci si muove ancora dentro un perimetro simbolico nato da una negoziazione tra forze contrapposte, che si è poi trasformata in ortodossia.
E questa distanza crescente tra le parole e le condizioni reali produce disorientamento. Non solo tra chi contesta apertamente quelle parole, ma anche tra chi, pur avendovi aderito, fatica oggi a usarle senza un senso crescente di forzatura.
Ripartire da qui significa accettare che il presente italiano richiede un linguaggio libero da mediazioni rituali e adatto a descrivere realmente ciò che siamo diventati.
È questo il compito di chi scrive: guardare le cose per ciò che sono, senza compiacimenti, senza scorciatoie.
Portare alla luce ciò che non tiene, ciò che si incrina, ciò che chiede di essere compreso prima ancora che corretto.
Chi scrive ama profondamente il proprio paese. Lo guarda con attenzione, con misura, con una fedeltà che non ha bisogno di parole rassicuranti.
In una casa, chi la abita davvero non si ferma a ciò che è in ordine: osserva ciò che va rinforzato, riparato, custodito.
È questo lo spirito che anima queste pagine: attento, mai disfattista. Lucido, mai rassegnato.
Un esercizio di fedeltà. Alla realtà che rifugge la narrazione.