Questo capitolo richiede circa 5 minuti di lettura attenta.
Tra il 1945 e il 1947 l’Italia ha attraversato un passaggio decisivo. Non solo la fine della guerra, ma un insieme di scelte che hanno ridefinito in profondità l’identità politica del Paese. La monarchia è stata abolita con un referendum mai del tutto pacificato, è stata varata la Costituzione della Repubblica Italiana del 1948, e nel frattempo si è consolidata la presenza militare americana sul territorio nazionale, tuttora attiva. Queste trasformazioni, avvenute sotto vincolo esterno e in un clima interno fragile, hanno segnato l’inizio di una nuova narrazione pubblica, che si sarebbe poi imposta per generazioni.
Il compromesso tra le forze politiche dell’epoca – Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista – non ha prodotto soltanto un equilibrio istituzionale: ha generato un linguaggio. Un insieme di parole, concetti, riferimenti morali che avrebbero definito i limiti del discorso accettabile. La Resistenza, la Costituzione della Repubblica, il progetto europeo sono stati caricati di un valore simbolico che ha rapidamente superato la dimensione storica, assumendo quella di una grammatica civile obbligatoria.
Ma quel linguaggio non è nato da un’elaborazione condivisa. È stato il risultato di una negoziazione tra forze contrapposte, in un quadro segnato dalla sconfitta, dall’occupazione militare, dal bipolarismo internazionale. Era una soluzione provvisoria, utile a evitare fratture, ma col tempo si è trasformata in ortodossia.
Il risultato è stato un sistema di legittimazioni in cui alcune parole erano ammesse e altre escluse. Espressioni come “interesse nazionale”, “autonomia culturale”, “sovranità” sono state accantonate, perché incompatibili con lo schema simbolico dominante. Chi le utilizzava si esponeva al sospetto di nostalgia o di pericolosità.
In questo modo, la dimensione nazionale dell’Italia è stata sistematicamente rimossa. Qualunque proposta politica che provasse a radicarsi in un’idea di autonomia reale veniva ridotta a sintomo di regressione. Al contrario, l’adesione a modelli esterni – europei, atlantici, moralmente “alti” – veniva presentata come la garanzia di civiltà.
Oggi, quella struttura regge solo formalmente. Il quadro su cui si fondava non esiste più. Ma molte delle sue parole continuano a essere ripetute, senza più il legame con la realtà che dovrebbero descrivere. L’Italia è cambiata, ma il linguaggio che ne ha orientato il pensiero pubblico resta fermo. È proprio da questa distanza che può cominciare un altro tipo di riflessione.