Questo capitolo richiede circa 6 minuti di lettura attenta.
Ci sono parole che, nel tempo, smettono di significare e cominciano a definire. Non descrivono più la realtà: la sostituiscono. È il caso della formula con cui si apre la nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica.”
A prima vista, sembra un'affermazione semplice, fattuale. Ma ogni parola di quella frase porta con sé un nodo irrisolto. Che cos’è l’Italia? Che cos’è una Repubblica? È possibile che una nazione intera – con la sua storia, la sua pluralità, la sua profondità temporale – possa coincidere con una forma statuale? È possibile affermare che “l’Italia è una Repubblica” con la stessa naturalezza con cui diciamo che il cielo è azzurro o che due più due fa quattro?
Una definizione ontologica, per essere tale, deve contenere tutto. Deve guardare ciò che è, ciò che è stato, ciò che potrebbe essere. Ma l’Italia non è sempre stata una Repubblica. Lo era nel 1946, lo è oggi. Ma nel 1861 non lo era, nel 1492 nemmeno, e neppure sotto l’Impero Romano. Eppure, in tutti quei momenti, possiamo riconoscere l’Italia. Possiamo dire: “è l’Italia.”
Allora cos’è che stiamo definendo davvero? La nazione o la sua forma storica di governo?
L’Italia precede lo Stato. Lo attraversa, lo sopravvive. Non è la Repubblica: è la Nazione. È il nome di un territorio, di una lingua, di una memoria che cambia pelle senza perdere identità. Confondere la forma statuale con l’essenza nazionale non è solo un errore teorico: è un gesto che produce effetti profondi, anche se invisibili.
Le parole che non coincidono con la realtà vissuta creano inevitabilmente distanza e rimangono sospese pur non lasciando tracce visibili, allo stesso modo di una formula ripetuta a lungo che, senza più essere interrogata, finisce per svuotarsi, smettendo di parlare davvero.
In questo quadro, l’articolo 139 assume un significato particolare. È praticamente l’unico, tra le costituzioni delle grandi democrazie, a prevedere un divieto assoluto di revisione della forma di Stato e più che un principio condiviso appare un limite imposto, facendo dubitare che nasca da un’urgenza difensiva. È il gesto di una Repubblica giovane, fragile, che cerca garanzie assolute in una stagione ancora segnata dal timore. Eppure, quando un divieto viene scolpito nella Costituzione, il suo senso simbolico supera quello giuridico. Non si tratta più solo di vietare una scelta: si sottrae una possibilità al pensiero.
Le identità collettive maturano nella libertà di interrogarsi, nel tempo lungo della riflessione, nella capacità di attraversare anche le contraddizioni. Una forma di Stato, per durare, ha bisogno di essere pensata, compresa, respirata.
Nessuna clausola di irrevocabilità può sostituire questa consapevolezza.
L’Italia è una realtà più antica e più vasta della forma che l’ha accompagnata nel secondo dopoguerra. Dargli voce oggi significa lasciarle lo spazio per continuare a dirsi, senza pretendere di chiuderla in una formula.