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Nel secondo dopoguerra l’Italia fu inserita nella sfera di influenza occidentale per decisione strategica delle potenze vincitrici. La presenza militare americana sul territorio, a partire dal 1943, si consolidò con l’adesione al Patto Atlantico nel 1949. Fu una presenza discreta nei modi, ma permanente e inamovibile nei fatti. Le basi non furono mai oggetto di discussione reale. La sovranità nazionale venne da subito delimitata, senza dichiarazioni formali ma attraverso vincoli strutturali.
Allo stesso tempo, la vita politica interna rimase per oltre trent’anni segnata dalla forza del Partito Comunista, legato all’Unione Sovietica, e dalla costante tensione tra fedeltà atlantica e consenso popolare. Il sistema politico italiano si mosse dunque, fin da subito, su due binari: l’alleanza con gli Stati Uniti come condizione geopolitica imposta; l’esistenza di un’opposizione filosovietica legittimata dal voto e dalla società civile.
In questo quadro instabile, la classe dirigente cercò un equilibrio più simbolico che strategico. La dipendenza esterna non fu solo una necessità: divenne uno schema mentale. Il legame con gli Stati Uniti non si espresse tanto sul piano militare diretto, quanto su quello culturale e simbolico. Il modello americano fu assunto come riferimento implicito: nelle università, nel cinema, nel lessico quotidiano, nel modo stesso di rappresentarsi come società moderna. In cambio degli aiuti economici, si accettò – o si scelse – una ridefinizione profonda dei riferimenti culturali.
Questa ambivalenza ha generato una forma peculiare di subordinazione: discreta nei modi, ma totale nella struttura. L’Italia sviluppò una cultura politica fondata sull’idea che la legittimazione dovesse arrivare dall’esterno. Prima dagli Stati Uniti, poi – con l’indebolimento progressivo del PCI e la fine della Guerra Fredda – da Bruxelles. La crisi del mondo bipolare lasciò un vuoto che fu colmato da una nuova cornice simbolica: l’integrazione europea come “nuova inevitabilità”.
È a partire dagli anni Novanta che l’europeismo si trasformò da opzione politica in grammatica obbligata. Persa la sponda sovietica, dissolta la centralità americana nel discorso pubblico, le élite politiche e culturali italiane si rivolsero al progetto europeo non solo come vincolo istituzionale, ma come orizzonte identitario. L’Europa non fu più un campo di cooperazione tra Stati, ma un referente simbolico, una nuova fonte di ordine e legittimità.
In entrambi i casi – atlantismo prima, europeismo poi – il meccanismo è stato lo stesso: cercare fuori il principio di autorizzazione. L’Italia, in questa logica, non si è mai pensata come soggetto compiuto, ma come spazio da tenere agganciato a qualcosa di superiore. Ogni volta che ha tentato di definirsi con parole proprie, si è scontrata con il sospetto, l’accusa di anomalia, l’idea che da sola non potesse reggere.
Questa forma di minorità non è solo politica. È diventata anche linguaggio, costume, automatismo culturale. E continua a operare, anche quando non viene più dichiarata.