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Tra i fenomeni politici degli ultimi decenni, quello della Lega ha assunto a lungo il volto della reazione. Si presentava come voce dei territori, espressione di un Nord produttivo, distante da un’Italia percepita come inefficiente e lontana. Ma fin dall’inizio quel linguaggio si muoveva in un orizzonte che superava la geografia. Non indicava un luogo, ma definiva — nelle stesse parole dei fondatori — una condizione. Tracciava una distanza simbolica. Separava.
Il riferimento al Nord non portava con sé un’identità culturale compiuta. Era un gesto di contrasto, non di appartenenza. Anche l'evocazione del mondo celtico, poi divenuta emblematica, rispondeva a questa logica: non un recupero storico, ma una costruzione immaginaria. Sotto quella superficie si intrecciavano memorie sparse e idealizzate: la repubblica veneta, la presunta efficienza asburgica, l'etica produttiva di stampo germanico. Non un disegno, ma un mosaico disarticolato. Non un'origine da ricomporre, ma una differenza da affermare.
In questa narrazione, la nazione non era un progetto da realizzare, ma un ostacolo da superare. E quel discorso ha potuto affermarsi perché trovava intorno un terreno già segnato. In ampie fasce del paese, l'idea di nazione si era da tempo svuotata; in molti ambienti veniva associata più a un passato anacronistico da rimuovere che a una comunità da costruire. Là dove l'identità si era rarefatta, dove l'appartenenza era diventata nominale, ha preso forma lo spazio del localismo.
La Lega non ha prodotto un'identità alternativa: ha occupato un vuoto. E lo ha trasformato in linguaggio politico. La successiva svolta nazionale non ha invertito il senso di quel percorso: ha solo esteso, con altri toni, lo stesso vuoto d'origine.
Ma quella frattura — quel localismo elevato a forma di identità — non è rimasto confinato alla Lega. Ha trovato una legittimazione silenziosa anche nelle riforme istituzionali, spesso celebrate come passi avanti della democrazia. Tra queste, la nascita delle Regioni e l'elezione diretta dei sindaci hanno inciso più di quanto si voglia ammettere.
La centralità dello Stato, che aveva garantito stabilità e coesione anche nei decenni più difficili del dopoguerra, è stata progressivamente ridimensionata, lasciando spazio a un mosaico di autonomie, percepite come necessarie ma spesso disarticolate.
È interessante notare come proprio a partire dalla nascita delle Regioni, le dinamiche economiche e fiscali inizino a mostrare segnali di squilibrio. Non si può affermare con certezza un nesso causale, ma la coincidenza temporale tra la crescita del debito pubblico e l'avvio del regionalismo invita a riflettere. Quando l'unità simbolica si frantuma, anche il controllo sui processi reali — compresi quelli finanziari — si indebolisce.
Allo stesso modo, l'elezione diretta dei sindaci ha generato una spinta autonomista non solo amministrativa, ma anche immaginativa: ha rafforzato l'idea che l'identità collettiva possa coincidere con il proprio comune, la propria provincia, il proprio territorio. In questo modo, la distanza dallo Stato centrale non è stata più solo politica. È diventata emotiva. E con essa, la nazione è scivolata ancora più ai margini, delegittimata non da un attacco, ma da un'erosione lenta, trasversale, apparentemente democratica.
Ma quella dispersione non è stata solo il frutto di riforme istituzionali. È stata preparata, e in parte giustificata, da un cambio di sguardo più profondo: un’idea di autonomia intesa non come responsabilità, ma come dissoluzione progressiva di ogni quadro nazionale. Negli ultimi decenni, proprio in nome della valorizzazione delle differenze, si è teorizzata — e spesso attuata — la frammentazione dell’amministrazione pubblica, dell’istruzione, della sanità. Così, mentre si moltiplicavano le distinzioni tra quartieri, scuole, territori, fino a rendere difficile perfino un coordinamento logistico, le stesse voci che rivendicavano tali specificità negavano ogni legittimità alle peculiarità italiane nel contesto europeo.
Si teorizzano differenze educative tra due scuole della stessa via, ma si arrossisce se si parla di specificità italiane in sede europea.
La diversità, celebrata all’interno, diventava imbarazzo all’esterno. L’identità locale veniva assolutizzata, quella nazionale dissolta.
Questa asimmetria non è casuale. Risponde a un principio implicito ma costante: la nazione è un’entità da superare. Non deve mai esistere come soggetto politico pieno, né verso il basso — dove l’autonomia si fa polverizzazione — né verso l’alto — dove si invoca l’unità sovranazionale. Prima ancora del localismo politico, è stata la cultura istituzionale dominante a svuotare il senso del confine e della coesione. E ciò che si presenta come apertura, talvolta, è solo un’altra forma di disintegrazione.