Questo capitolo richiede circa 6 minuti di lettura attenta.

Capitolo 5 – La distanza da sé

“Succede solo in Italia.”
“Gli italiani sono fatti così.”
“D’altra parte siamo in Italia.”



Frasi come queste si sentono ovunque: in coda all’ufficio postale, al telegiornale, nei titoli dei quotidiani, nei discorsi informali. Non sono semplici espressioni di frustrazione. Portano con sé un giudizio più profondo, una visione interiorizzata: quella di un popolo che si pensa manchevole, strutturalmente inadeguato, e che guarda a sé stesso con diffidenza, spesso con vergogna.

Chi parla degli “italiani” raramente si include. È come se osservasse da fuori, da una posizione neutrale o superiore, nella quale non si sente parte in causa. È lo sguardo di chi si considera eccezione in mezzo a un difetto diffuso. Ma è anche, più silenziosamente, lo sguardo di chi ha imparato a giudicarsi con gli occhi di altri, di chi si è abituato a misurare il valore di ciò che è proprio sulla base di parametri esterni.

Questo atteggiamento non nasce all’improvviso. Ha radici lunghe, che affondano in una storia di frammentazione, dominazioni, dipendenze. Per secoli l’Italia è stata divisa, governata da poteri stranieri, privata della possibilità di costruire un’identità politica unitaria e autonoma. In molte aree del Paese, il potere era altrove, e la legalità veniva vissuta come imposizione esterna. In questo scenario si è formata, lentamente, una cultura della delega, del disincanto, e a volte della rassegnazione.

Il tentativo di ridefinire l’Italia nel secondo dopoguerra, seppure animato dalla volontà di rinnovamento, ha finito — anche involontariamente — per rafforzare questa disposizione. L’identità repubblicana è stata costruita più per opposizione a ciò che si voleva superare che per elaborazione autonoma di un principio condiviso. E con il tempo si è consolidata l’idea che il paese non potesse bastare a sé stesso. Il bisogno di approvazione esterna è diventato un riflesso. È in questa logica che, decenni dopo, può nascere senza scandalo una frase come quella pronunciata da Mario Monti: “Dobbiamo fare i compiti a casa”. Un capo di governo che si rivolge agli italiani come a una classe svogliata da correggere, dando per scontato che l’autorità risieda altrove.

Nel Novecento questa disposizione è riemersa in nuove forme, spesso raffinate. Giorgio Bocca, uno degli intellettuali più noti del dopoguerra, teneva su un grande quotidiano una rubrica intitolata “L’Antitaliano”. Era il titolo di chi si sentiva in dovere di prendere le distanze da un popolo considerato incapace di maturità civile, di rigore morale, di responsabilità collettiva. Non era un gesto isolato: in molte voci della cultura italiana è presente, in forme diverse, questo giudizio severo, quasi sprezzante, verso il proprio paese. Come se il vero spirito critico coincidesse con l’auto-denigrazione.

Eppure, mentre questo atteggiamento si consolidava nei discorsi pubblici, la realtà del paese diceva altro. Mentre si parlava di inadeguatezza, milioni di italiani costruivano, curavano, insegnavano, inventavano. Non per spirito eroico, ma per necessità, per senso del dovere, per adesione silenziosa a un’idea concreta di bene comune. Non cercavano riconoscimento, spesso nemmeno si sentivano rappresentati, ma il paese che oggi abitiamo esiste perché quelle persone hanno fatto, giorno dopo giorno, ciò che andava fatto.
Ogni struttura che ha tenuto, ogni servizio che ha funzionato, ogni forma di continuità è nata da lì. Ogni pietra, letteralmente, è stata appoggiata da una mano italiana. Non c’è angolo del territorio che non porti i segni di un lavoro fatto da chi era qui, con mezzi propri, in tempi spesso avversi.

Nel corso dei secoli, l’intervento esterno non ha mai portato sostegno duraturo. Al contrario: sono stati secoli di spoliazioni. Patrimoni artistici, ricchezze materiali, intere economie locali sono stati oggetto di saccheggio. Non metaforico, ma reale. Reiterato.

Eppure, nonostante tutto, il paese ha tenuto. Non perché qualcuno l’abbia salvato, ma perché in ogni epoca c’è stato chi ha ricominciato. Chi ha raccolto ciò che restava e l’ha rimesso in piedi. Nonostante la sfiducia, nonostante il giudizio, nonostante tutto.

Esiste quindi una frattura: tra l’immagine negativa che spesso l’Italia ha di sé, e la realtà concreta di ciò che ha saputo fare. Tra lo sguardo che giudica dall’esterno e la sostanza di una storia che, pur tra limiti e contraddizioni, ha prodotto forme alte di civiltà, cultura e lavoro.

Riconoscere questa frattura non significa ignorare i problemi. Significa, piuttosto, smettere di assolvere lo sguardo esterno come se fosse l’unico possibile. E iniziare, forse, a guardarsi con maggiore equilibrio. Non per cercare consolazione, ma per ritrovare misura. E verità.