Si può davvero concepire che una Costituzione, nata per dare forma alla sovranità popolare, finisca col consumare lentamente il popolo che dovrebbe custodire? Non è forse questo il paradosso più radicale della nostra epoca: vedere un testo pensato per garantire libertà, dignità e partecipazione trasformarsi, per ambiguità intrinseche e mutamenti storici, in strumento di dissoluzione del soggetto che lo ha generato?
La Costituzione italiana del 1948 parla con enfasi di “popolo”, ma non ne definisce mai l’essenza: si limita a riconoscerne l’esistenza come se fosse un dato ovvio, naturale, indiscusso. In quell’immediato dopoguerra, in un’Italia provata dalla sconfitta e dalla guerra civile, nessuno avrebbe potuto immaginare milioni di ingressi in pochi decenni, né un processo di ridefinizione radicale del corpo civico attraverso un’estensione progressiva della cittadinanza. Quella lacuna, allora quasi invisibile, oggi appare come una crepa destinata ad allargarsi: basta infatti cambiare le regole formali di accesso alla cittadinanza per trasformare, legalmente e senza colpo ferire, l’identità stessa del popolo sovrano.
Qui sta l’ambiguità di fondo: se il popolo è solo l’insieme dei cittadini, e se la cittadinanza è un atto amministrativo che può essere concesso senza alcuna garanzia di adesione culturale o storica, allora il fondamento stesso della sovranità rischia di svuotarsi. La sovranità, che l’articolo 1 proclama appartenere al popolo, diventa così un concetto vacillante, aperto a manipolazioni: il popolo non è più comunità storica, linguistica, culturale, ma semplice somma aritmetica di individui, variabile secondo le scelte di chi legifera.
A questo si aggiunge un’altra ambiguità, ancor più sottile: quella tra Italia e Repubblica. Non è la Costituzione dell’Italia, ma della Repubblica. E la differenza non è solo formale. “Italia” richiama un popolo, una civiltà, una lingua; “Repubblica” designa un ordinamento politico, contingente, costruito sulle rovine del passato. La Costituzione del 1948, volendo marcare una cesura netta con lo Stato preesistente, si è fondata non tanto sulla continuità della nazione, quanto sulla proclamazione di valori astratti, presentati come universali. Ecco allora che un testo nato per una comunità concreta assume il tono di una carta dei diritti dell’umanità, senza confini, quasi a voler trasfigurare il popolo in un’astrazione.
Le conseguenze di questo scivolamento sono oggi sotto gli occhi di tutti. Quando la scuola abbassa il livello dell’insegnamento della lingua italiana per adattarsi a chi non la conosce, non obbedisce più al compito di trasmettere un patrimonio, ma a un’idea astratta di inclusione. Quando il sistema sanitario e scolastico viene caricato di oneri che superano di gran lunga le possibilità della comunità, si invoca l’eguaglianza universale dimenticando che essa dovrebbe anzitutto garantire dignità ai cittadini che hanno fondato la Repubblica. Non è più l’Italia che si custodisce, ma una Repubblica che si legittima parlando in nome di principi universali, anche a costo di sacrificare il popolo concreto che dovrebbe servire.
In questo scenario, l’eguaglianza e i diritti universali, principi alti e nobili, si trasformano in strumenti ambigui: non più garanzia di coesione interna, ma veicoli di un universalismo senza radici che, se applicato senza limiti, conduce a sacrificare il bene del popolo in nome di un’umanità indistinta. È qui che il discorso si fa radicale: se la Costituzione consente, anche indirettamente, la dissoluzione del soggetto che la sostiene, non ci troviamo forse di fronte a un atto di violenza anti-costituzionale, un tradimento silenzioso della sua stessa ragione d’essere?