C’è dell’Italia una percezione diffusa e tenace: quella di un paese mai all’altezza, che sbaglia i tempi, che si muove in ritardo, che non sa programmare. È un giudizio che viene da fuori, ma che nel tempo abbiamo fatto nostro: ci viene detto che il nostro sapere è troppo teorico, che la nostra scuola è troppo astratta, che le nostre prassi sono troppo indulgenti, bizantine e levantine allo stesso tempo. E così, finiamo per guardare a noi stessi con lo stesso sospetto con cui ci osservano gli altri. Come se fossimo sempre un passo indietro rispetto a un altrove più efficiente, più rigoroso, più avanzato — indefinito e irraggiungibile.
Partendo da questi assunti, una domanda dovrebbe inquietare le nostre coscienze: se tutto questo corrisponde a realtà, come fa il nostro Paese a continuare ad andare avanti?
Perché, se si viaggia in Italia e la si ascolta con attenzione — anche nei dialoghi quotidiani, nei luoghi più impensati — si trovano ancora competenze vere, riflessioni profonde, capacità di affrontare problemi complessi. Due ragazzine, dopo ore passate al cellulare, possono scambiarsi una battuta su un filosofo studiato a scuola; due colleghi, parlando di vacanze, possono trovarsi a discutere con naturalezza di pittura rinascimentale. Non è ostentazione, né piena consapevolezza: è il segno che qualcosa è passato, si è depositato, è diventato linguaggio comune.
Può accadere che due artigiani, mentre lavorano, parlino di tecniche pittoriche o di proporzioni classiche; che un laureato in discipline tecnico-scientifiche, chiamato a progettare, non si limiti a usare strumenti informatici avanzati, ma sia in grado di ricostruire ogni passaggio partendo dalle basi — perché la sua formazione non gli ha fornito solo soluzioni, ma gli strumenti per arrivarci da solo, nel tempo, con rigore e autonomia.
Accade anche che una porta tagliafuoco lasciata aperta, segno apparente di negligenza, nasconda forme di ordine che non passano per il divieto. In altri luoghi la regola è una barriera. Qui, spesso, è un accordo implicito. La coesione non nasce dalla sorveglianza, ma dal contesto, dalla misura, dal senso delle situazioni.
Ma forse c’è una ragione più profonda per cui tanti giudizi sull’Italia — anche quelli espressi da italiani — si rivelano inadeguati. Ed è che siamo un paese difficile da leggere, anche per chi lo abita. La nostra storia non è lineare, il nostro sviluppo non è continuo, la nostra identità non è centralizzata: è fatta di scarti, di ricomposizioni, di permanenze. Per più di millecinquecento anni abbiamo vissuto separati, senza uno Stato unico, ma la matrice era la stessa, la civiltà era condivisa, e ha continuato a formare, tramandare, trasformare saperi anche in assenza di un potere centrale.
Per questo, ogni volta che ci si confronta con il modello altrui — più uniforme, più orientato, più semplificato — si tende a concludere che noi siamo manchevoli. Ma è una valutazione affrettata, che scambia la complessità per inefficienza, la profondità per confusione e la logica del confronto sbaglia la misura: ci si giudica inadeguati quando non si rientra in una griglia estranea, costruita su altri presupposti storici, linguistici, simbolici.
Eppure, è proprio questa complessità che ci distingue. Noi non siamo un paese semplice. Abbiamo una memoria lunga che ha generato, nel tempo, una trasmissione culturale a più livelli; nasce dalla scuola ma non si esaurisce in essa, perché affonda nella società, nella famiglia, nei modi di dire, nei gesti condivisi. È questa struttura invisibile che ha permesso all’Italia di resistere, di produrre, di formare, anche nei momenti in cui le sue istituzioni erano fragili o delegittimate.
A volte si dice che la differenza tra noi e altri popoli sta nel fatto che loro vanno tutti nella stessa direzione e noi no. È un’osservazione che colpisce per la sua apparente chiarezza. Ma a ben vedere, è anche l’ennesima forma di auto-denigrazione, una di quelle frasi che circolano con facilità proprio perché confermano una diagnosi che ci è stata imposta: quella di essere un paese incapace di orientarsi. In realtà, la nostra molteplicità è parte della nostra forza: ci espone al rischio della dispersione, sì, ma ci rende anche più flessibili, più attenti, più pensanti.
Per dirla in breve: noi pensiamo di più. Non perché siamo migliori, ma perché veniamo da più lontano. E questo, che spesso ci viene rimproverato come indecisione o debolezza, è in realtà il segno di un’eredità culturale che non si è mai del tutto interrotta.