Non possiamo permetterci un eterno armistizio.

A ottant’anni dalla fine della guerra, siamo ancora prigionieri del racconto che ci divide:

chi ha vinto ha salvato il Paese e merita gratitudine eterna,
chi ha perso lo ha portato nel baratro e va condannato per sempre.

Ma è davvero così semplice?

Nel 1943 un popolo intero fu diviso da eventi più grandi di lui: gli angloamericani a sud, i tedeschi a nord, un re in fuga, un esercito abbandonato.
Una frattura esterna che poi abbiamo raccontato come interna.

Come se non fossimo stati, invece, un unico popolo travolto dalla storia. Capace, nel tempo, di adattarsi, obbedire, giustificare, voltarsi altrove.
In definitiva, abbiamo partecipato tutti alla nostra storia, in un modo o nell’altro.

Eppure continuiamo a raccontarla come se, tra i 42 milioni di italiani di allora, solo una parte fosse “migliore”, più giusta, più degna.

Il risultato continua a essere una memoria che non unisce e una celebrazione che riapre le ferite invece di curarle.
Un sospetto reciproco che dura da generazioni, come se non fossimo mai usciti davvero dalla guerra.

Forse è arrivato il momento di prenderci questa responsabilità.
Per riconoscere che ogni guerra civile lascia cicatrici che solo l’amore, non la vittoria, può guarire.

E forse, più che nuove celebrazioni, servirebbe una pausa per tornare a guardarci negli occhi senza giudizio.
Per restituire umanità a tutti i morti, perché nessuno nasce e muore invano.

E per cominciare, finalmente, a capire che tutti noi siamo stati quelli.